Discussione: Si chiamava Cleo
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Vecchio 04-08-2018, 23:20   #1
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Mik
Cucciolino
 
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Predefinito Si chiamava Cleo

So che non è il modo corretto di presentarsi, ma è l’unico che ho per raccontarvi la mia storia. Sono dieci anni, che me la tengo dentro, oggi ho bisogno di raccontarla.

Ero stato scelto, ora lo so, da una gatta che vagava per i giardini. Mi entrava dalle portefinestre aperte del pianterreno, dormiva su una poltrona o dentro qualche scatola, accettava il mio cibo, la notte le lasciavo uno spiraglio in una portafinestra sufficiente a farla entrare e uscire come preferiva. Era la mia compagna mentre lavoravo, cucinavo, guardavo la televisione. Buona e discreta, anche se non particolarmente affettuosa. Poche e discrete fusa e qualche strusciata di riconoscenza per il cibo ricevuto, miseri crocchini e bustine di bocconcini della Conad che avevo vicino casa, che pure le dovevano sembrare ambrosia divina paragonato a quanto trovava nella sua vita errabonda. Una volta, mi seguì in casa, al ritorno dal mercato (stava a prendere il sole sul muretto, quando arrivai) , attirata dall’odore, per lei inebriante, delle sardine che avevo acquistato. Ricordo ne mangiò cinque, intere, dalla testa alla coda. Ero al vertice della felicità, la sua presenza mi rilassava, mi incantato a vederla dormire nelle posizioni più strane, serena, tranquilla.

Un giorno sparì. Come era comparsa, all’improvviso, all’improvviso non la vidi più. Per mesi era entrata e uscita di casa tutti i giorni, una presenza discreta e quasi rassicurante, nella mia esistenza disastrata. La sua sparizione mi gettò nel panico, erano mesi che tutti i giorni veniva, e spesso passava l’intera giornata con me, salvo forse andarsene la notte a cercare qualche topolino o, scherzavo, qualche comare gatta con la quale scambiarsi i pettegolezzi. Non chiedetemi perché, non ho mai pensato potesse essere andata in calore, del resto non avevo mai visto nessun corteggiatore avvicinarsi alla casa, benché i giardini fossero pieni di gatti.

Corsi a cercarla per i giardini, gridando il suo nome, l’avevo chiamata Cleo, scuotendo la scatola dei croccantini, agitando piattini di bocconcini in salsa che attiravano altri commensali pelosi, ma non lei. Cercai in strada, chiedendo se qualche gatto era stato investito dalle auto, pure prudenti e rispettose, da quelle parti. Nulla. Mi alzavo la notte sperando di trovarla a dormire sul divano, facevo capolino nei giardini guardando verso la siepe dalla quale era comparsa la prima volta, implorando quasi che ricomparisse da lì.
Dopo qualche giorno, dovetti arrendermi all’evidenza. Era sparita.

La piansi per diversi giorni. Davanti al computer, mi coprivo il volto con le mani e piangevo. Piangevo con la testa appoggiata alla tastiera, piangevo a letto la notte. A cinquantanni suonati, piangevo. Piangevo la compagna della mia vita che non c’era più.

Un giorno, quella gatta ricomparì. Come se nulla fosse, mentre uscivo per fare la spesa la vidi sgusciare da sotto la casa e passare per il vialetto davanti a me, lontana, altera, senza degnarmi di uno sguardo. La chiamai, girò appena la testa, si fermò due secondi a guardarmi, poi riprese il suo cammino come se nulla fosse. Aveva un collarino di nylon al collo, mi chiesi chi glielo avesse messo, ma non mi interessava, era la mia gatta. Corsi a prenderle crocchini e bocconcini e col piatto imbandito cercai di attirarla, ma lei mi ignorò e sparì nuovamente.

Sedetti sui gradini di casa, avvilito, e piansi nuovamente, chiedendomi cosa fosse successo, perché. L’unico affetto che avevo, mi aveva tradito. Era successo altre volte, ma questa mi aveva schiantato, viene il momento che ti arrendi e dici non ce la faccio più. Nei giorni seguenti, la vidi di sfuggita altre volte, si fermò appena a mangiare qualche crocchino che le offrivo, per poi allontanarsi. Ero sempre più sconvolto e perplesso.

In quel periodo, mi capitò fra le mani un libro, in biblioteca, dove, in tutt’altro contesto (parlava della possibilità di sopravvivenza della Terra e degli ecosistemi se l’umanità fosse scomparsa all’improvviso), l’autore si dilungava in un lungo capitolo a descrivere come quasi sicuramente i gatti sarebbero sopravissuti anche senza di noi, li descriveva come animali spietati, ipocriti ed opportunisti, che si erano fatti eleggere a dei dagli umani. Non so perché, la lettura di quelle righe, il giorno dopo, alla vista della gatta che passava, mi montò in corpo un odio feroce, il sangue, letteralmente, mi ribollì.

Preso da una furia omicida, scesi di corsa dai gradini, e le rifilai un calcio. La povera gatta volò contro la siepe ma, non so perché, non fuggì, beccandosi un altro calcio. E dopo quello, scappò terrorizzata. Nei giorni seguenti, le feci un paio di imboscate apposta per prenderla a calci, e quando imparò ad evitarmi, la annaffiai in diverse occasioni con la canna che usavo per irrigare il giardino.

Poi, rapida come era venuta, la mia furia si esaurì. E la mia cattiveria mi crollò addosso come un muro di mattoni. Non mi chiedevo più perché quella “maledetta gatta” mi avesse tradito, ma guardavo la sua poltrona vuota, e il piattino dei suoi croccantini, e piangevo nuovamente chiedendomi cosa fosse successo.

Mi iscrissi a un forum di gatti, non ricordo nemmeno quale, e raccontai la storia, senza risparmiami niente, e chiesi consigli. Ovviamente piovvero gli insulti, ma c’era anche chi mi mostrò comprensione. Mi spiegarono la psicologia del gatto, soprattutto del gatto “libero”, ricordo una donna, mi raccontò di una gatta, al paese suo, che girava per le case, dormiva qui e là, accettava cibo da tutti, ma lei “non voleva essere la gatta di nessuno”.

In quei giorni, facendo due chiacchiere con una vicina, nei vialetti dei giardini, vidi passare la gatta, che fuggì terrorizzata, quando si accorse di me. “poveraccia”, le dissi (alla vicina), “l’altra sera mentre tornavo, sono inciampato in lei al buio e le ho rifilato, senza volerlo, un calcione, da allora scappa sempre, quando mi vede”. “Le passerà”, mi rispose lei, “viene sempre a mangiare da noi, le ho messo il collarino per riconoscerla dagli altri gatti del giardino”.

Da allora, cercai in diverse occasioni di attirarla con del cibo, dovevi farmi perdonare. Le lasciavo il piatto e me ne andavo, osservandola mangiare da lontano. Passarono i mesi. Partorì. La vedevo allattare il suo unico cucciolo in una grossa fioriera, ma non osavo avvicinarmi, lasciavo sempre cibo e mi allontanavo. Quasi piansi quando la vidi mangiare tutta soddisfatta delle sardine che avevo preso la mercato solo per lei. Eppure, non cercai più di prenderla o di avvicinarmi.

Lo fece lei. Un giorno venne verso di me col suo cucciolo e me lo lasciò. Non ho mai capito cosa sia successo. Me lo lasciò sui gradini e se ne andò, e il piccolino non la seguì. Rimasi seduto ad aspettare il suo ritorno, passò un’ora buona, di lei nessuna traccia. Non sapevo che fare. Temendo che il cucciolo scappasse e finisse sotto una macchina, lo presi per la collottola e lo portai in casa, lo deposi nella scatola dove sua mamma dormiva, un tempo lontano e felice. Credo ci fosse ancora il suo odore, il piccoletto si mise a dormire tranquillo.

Chiamai un’amica gattara che avevo conosciuto nel frattempo, e conosceva la storia per intero, le spiegai la situazione. “Te lo ha lasciato”, mi rispose. “Forse non ha latte, forse è malata, i gatti sentono quando stanno per morire”. “Cosa devo fare?”, le chiesi. “Se puoi, tienilo”, mi rispose, “è il suo dono, lei ti ha perdonato e te lo ha affidato perché tu faccia quello che lei evidentemente non può, e sa di non potere: crescerlo sano e robusto alla vita. Le gatte, ricordalo, sono monumenti di amore e abnegazione, per i propri cuccioli”.

Più tardi venne a trovarmi e lo esaminò. “È un bel maschietto”, mi disse, “ha circa due mesi, dagli questa roba”, e mi consegnò croccantini e umido kitten che mi disse aveva a casa, ma mi sembravano appena comprati dal vicino Lucky Dog (oggi Arcaplanet). Mi diede molti consigli, lettiera, giochi, cuccia, veterinario eccetera, e si raccomandò di tenerci in contatto.

Qualche giorno dopo, uscendo di casa, trovai la gatta ad aspettarmi. Credevo rivolesse il suo cucciolo, l’avevo vista un’altra volta annusare intorno casa, sotto le finestre, come per cercarlo; glielo andai a prendere e glielo deposi vicino. Lei lo annusò, strofinò il muso, poi si girò e se ne andò. E il piccolino, che avevo deciso di chiamare Ginger (è il nome inglese dei gatti rossi, come quel cucciolino), non la seguì. Rimase sui gradini a guardare la mamma che se ne andava, poi decise di partire all’inseguimento di una farfalla, costringendomi a sorvegliarlo perché non uscisse dal giardino e finisse in strada.

Non ho più visto Cleo. Ho chiesto diverse volte di lei, ma sembra sparita nel nulla, come dal nulla era comparsa. Una vicina mi disse che aveva trovato un gatto morto e lo aveva gettato nel cassonetto dei rifiuti, le chiesi il colore del mantello, alzò le spalle “era un gatto”.

Ginger è cresciuto, è diventato un bel gattone, fiero e solenne, il mio amico, compagno e complice, la ragione della mia esistenza. E sono comparsi altri gatti, in questi anni, tutti randagini solitari raccolti, non si sa mai se vittime dell’abbandono umano o della mortalità delle gatte “libere”. Il cibo che lascio nei giardini (ho fatto mettere in sicurezza il mio giardino perché i miei gatti non possano uscire, ma fuori lascio sempre qualcosa) è una buona calamita, per loro. Tanti sono stati adottati e vivono felici con le loro famiglie, altri li ho tenuti e stanno con noi. E alcuni sono morti, i randagi, spesso, hanno alle spalle storie di denutrizione o di infezione che ne mina la salute.

Perché oggi vi ho raccontato la mia storia? Perché l’ultimo trovatello recuperato nei giardini, è una gattina grigia e bianca come Cleo. Non ha ancora un nome, ho paura a chiamarla come lei. E poi la mia amica gattara, mi ha regalato un libro di poesie sui gatti, tempo fa, ma ho avuto tempo di leggerlo solo oggi. Mi sono imbattuto in una poesia straziante di Giovanni Pascoli, “La gatta”, che racconta una storia non dissimile da quella di Cleo e di Ginger.
Nella tradizione orientale, la vita è un cerchio che si chiude. Temo sia così.

Potete odiarmi, insultarmi, chiamarmi pazzo maledetto o bannarmi, dopo aver letto queste parole. Ma le voglio lasciare a ricordo di una creatura innocente che aveva la sola colpa di essere gatta.

Si chiamava Cleo.
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